Col grado di SS-Obersturmbannführer, Adolf Eichmann fu uno dei prin-cipali esecutori della “soluzione finale della questione ebraica” attua-ta dalla politica nazista, con il compito di organizzare l’evacuazione, la deportazione ed il massacro degli ebrei d’Europa durante la secon-da guerra mondiale.
Nel gennaio 1939 fu istituita la RSHA (Reichssi-scherheitshautamt) e su ordine di Heinrich Müller, capo della Gestapo, Eichmann venne trasferito dai Servizi di Sicurezza al RSHA – Amt 4, Polizia Politica, divenendo il capo del famigerato dipartimento IV-B-4 Emigrazione ed Evacuazione, poi denominato “Questioni ebraiche ed evacuazione”. Partecipò attivamente, insieme ad altri 14 gerarchi na-zisti, alla conferenza di Wansee del gennaio 1942, come comprovato dal verbale redatto dallo stesso imputato: all’ordine del giorno v’era lo sterminio fisico di 11 milioni di ebrei. Nel 1950 Eichmann riuscì a fuggi-re, dopo essersi nascosto in Italia, in Argentina sotto la falsa identità di Riccardo Klement – procurata dal vicario di Bressanone Alois Pompanin – così sottraendosi ai processi di Norimberga.
L’11 maggio 1960 venne tuttavia individuato e catturato dal Mossad e nove giorni dopo venne trasferito in Israele. Il pomeriggio del 23 maggio 1960, alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano, il primo mi-nistro Ben Gurion annunciò che Adolf Eichmann «uno dei più grandi criminali di guerra nazisti», era «già in Israele in stato d’arresto».
Il processo Eichmann di primo grado, a quindici anni da quello di Norimberga, non fu solo il primo ad un criminale nazista tenutosi in Israele ma fu anche il primo nel quale le vittime superstiti della Shoah presero la parola come testimoni: 112 deposizioni in oltre 150 udienze pubbliche, puntellate anche da migliaia di documenti e dai filmati ripresi dai militari delle Forze Alleate all’interno dei campi di sterminio all’indomani della liberazione.
L’istruttoria si celebrò tra l’11 aprile ed il 15 dicembre 1961 avanti alla Corte distrettuale di Gerusalemme, all’interno della Casa del Popolo “Beit Haam”, trasformata da teatro ad aula di giustizia e sala stampa internazionale. L’eco mediatica del processo fu senza precedenti: tutte le udienze, filmate in esclusiva dal regista statunitense Leo Hurwitz (già inserito nella c.d. black list del maccartismo ed autore del documentario del ’47 Strange Victory, sul razzismo negli Stati Uniti del dopoguerra) vennero trasmesse quotidianamente sia alla radio che alla televisione. La Corte era composta dai giudici Moshe Landau, Presidente, Benja-min Halevy e Yitzak Raveh, mentre Gideon Hausner era il Procuratore Generale e spettò a lui ed al suo vice, Gabriel Bach, istruire il processo e sostenere la pubblica accusa. Eichmann, che partecipò fattivamente a tutte le udienze – attraverso memoriali, dichiarazioni spontanee, esame e contro esame – dalla sua postazione racchiusa da vetri antiproiettile, scelse personalmente come proprio difensore l’avvocato Roberto Servatius, di Colonia, i cui onorari vennero pagati dal governo israeliano e che aveva già patrocinato altri gerarchi nazisti nel primo processo di Norimberga. I 15 capi d’imputazione che Hausner formulò contro Eichmann erano complessi, toccando sia il diritto penale israeliano, sia il diritto inter-nazionale. Della prima fonte era l’accusa principale verso Eichmann: la Legge n. 64 del 1950 contro i nazisti, ancora oggi in vigore.
Nel primo capo d’accusa si contestava l’aver causato, nel periodo tra il 1939 ed il 1945, la morte di milioni di ebrei, nella sua qualità di responsa-bile per la c.d. soluzione finale del problema ebraico, provocandone, in concorso con altri, la morte a mezzo dei campi di sterminio di Auschwi-tz, Chelmno, Belzec, Sobibór, Treblinka, Majdanek. Inoltre, dopo l’occupazione della Polonia nel 1939, l’imputato vi mandò i gruppi speciali d’azione delle SS Einsatzgruppen, preposti allo sterminio. Egli organizzò le deportazioni di massa degli ebrei di Germania, Austria, Italia, Bul-garia, Belgio, Unione Sovietica e Stati baltici, Danimarca, Olanda, Un-gheria, Jugoslavia, Grecia, Lussemburgo, Monaco, Norvegia, Polonia, Cecoslovacchia, Francia e Romania. Il secondo capo d’accusa era incen-trato sulle condizioni di vita cui furono sottoposti gli ebrei finalizzate a provocarne la morte, mentre il terzo capo descriveva le misure prese contro gli ebrei nell’Europa occupata dalle forze tedesche, allo scopo di privarli dei loro diritti di esseri umani, di opprimerli e di far loro subire torture inaudite. Nel quarto capo d’accusa era contestato all’imputato di aver emesso disposizioni per impedire le nascite tra gli ebrei.
Oltre a questi crimini contro il popolo ebraico, commessi dopo il 1941, l’atto d’accusa si concentrava sui crimini contro l’umanità (di cui alla Conven-zione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, ap-provata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1948) per aver Eichmann provocato il massacro della popolazione civile ebraica, perseguitato gli ebrei per motivi religiosi e razziali e per aver organizzato la spoliazione sistematica dei loro beni. I restanti capi di imputazione erano impernia-ti su altri crimini contro l’umanità: la deportazione di mezzo milione di civili polacchi tra il 1940 ed il 1942, la deportazione di 14.000 sloveni e di migliaia di zingari nonché di un centinaio di bambini cecoslovacchi da Ladice ed infine la partecipazione ad organizzazioni criminali come le SS, la SD e la Gestapo, la polizia segreta nazista.
Rispetto a tutti i capi d’accusa Adolf Eichmann si dichiarò non colpevole “nel senso dell’accusa”: “Im Sinne der Anklage, nicht schulding”. La di-fesa, dopo aver sollevato alcune eccezioni processuali preliminari, optò per una linea difensiva che faceva leva sia sulle circostanze attenuanti previste dalla stessa Legge n. 64/1950 (la persona che ha commesso il crimine […] può essere esentata dalla pena [di morte] se ha fatto del suo meglio per attenuare la gravità delle conseguenze del reato […] e può essere condannata a 10 anni di reclusione; la persona che ha commesso il fatto può essere esentata dalla pena di morte se ha eseguito gli ordi-ni al fine di salvarsi dal pericolo di morte), sia sulla non colpevolezza dell’imputato, avendo egli agito per ordini superiori; tesi, quest’ultima, che era già stata superata dalla giurisprudenza nonché smentita, nel merito, dalle due sentenze di Norimberga, emesse tra il 30 settembre e l’1 ottobre 1946. Nel corso del processo, inoltre, l’avvocato Servatius fece spesso riferimento a prove assolutorie raccolte in sede di indagini difen-sive che tuttavia non presentò mai alla Corte. Il leit motiv della difesa Ei-chmann era la burocratizzazione del suo ruolo, la sua adesione acefala ad ordini inappellabili, la non esecuzione materiale a proprie mani di alcuna uccisione di ebrei.
Tuttavia, l’approfondita istruttoria e lo stesso atteggia-mento dell’accusato, a tratti sprezzante, verso i sopravvissuti chiamati a deporre, minarono in radice l’impostazione difensiva ed il 15 dicembre 1961, la Corte, che si era aggiornata a fine dibattimento dal 14 agosto, pronunciò la sentenza di condanna alla pena capitale, riconoscendo Ei-chmann colpevole di tutti i capi d’accusa, mentre lo assolse dall’imputa-zione di aver personalmente ucciso un uomo. Tuttavia, secondo i Giu-dici, proprio la gravità dei crimini perpetrati aumentava «quanto più ci si allontanava dall’uomo che usa con le sue mani il fatale strumento».
La sentenza venne confermata in appello il 29 maggio 1962 dalla Corte Suprema ed il giorno stesso l’imputato presentò domanda di grazia al Presidente d’Israele che la respinse il 31 maggio. Poco prima della mez-zanotte di quel giorno venne eseguita la pena di morte per impiccagio-ne presso la prigione di Ramlah.
Il corpo di Adolf Eichmann venne cremato, le sue ceneri disperse oltre le acque territoriali israeliane ed il secchio che le conteneva fu accurata-mente lavato con acqua di mare perché nulla di lui ritornasse sulla terra.
Il titolo di questa sceneggiatura, concepita originariamente come pièce teatrale, ne condensa in sé l’idea o, per meglio dire, l’esigenza espressiva di fondo.
L’esigenza, più precisamente, di una re-citazione della Memoria attra-verso le deposizioni meno conosciute delle sopravvissute al genocidio.
Nello studio della Shoah, in effetti, ci avvediamo di come le testimo-nianze maschili siano preponderanti rispetto a quelle femminili, no-nostante la differenza di genere abbia rappresentato lo specchio della logica perversa nazista dello sterminio: estirpare gli ebrei non solo dal presente ma anche dal futuro, impedendone la riproduzione.
Le prove dichiarative offerte nel processo Eichmann dalle 22 donne so-pravvissute, furono di straordinaria importanza sia per la ricostruzione delle responsabilità penali dell’ex ufficiale nazista, sia per la narrazione dei metodi utilizzati dal Terzo Reich per reificare ed annientare la fem-minilità e la maternità delle donne ebree.
Al banco dei testimoni, le voci di queste donne, di ogni età, cultura ed estrazione sociale, poterono finalmente trovare ascolto. Ascolto delle atrocità, dei traumi vissuti giovanissime o, addirittura, bambine. Po-terono ridare voce alla forza straordinaria con la quale resistettero e combatterono a dispetto dell’annullamento dei propri legami più cari, a dispetto della loro riduzione a germi da dover essere distrutti, a di-spetto del momento in cui, come disse alla Corte una delle testimoni “cessammo di essere donne”.
Le immagini e le voci di quelle deposizioni in aula, pur interrotte dal-la commozione e dall’impossibilità, in alcuni casi, di descrivere l’indi-cibile, hanno rappresentato l’ispirazione massima nella stesura della sceneggiatura, restituendo la dignità assoluta della persona, non più solo vittima, che si fa Memoria e rimane in piedi di fronte all’imputato, all’accusatore, ai Giudici ed alla Storia.
L’analisi e lo studio delle fonti processuali, saggistiche e autobiografiche ha inoltre ispirato la concezione drammaturgica di un alter ego, il Giovane Adolf, che completa Adolf Eichmann ed al quale l’accusato cerca, nella tensione difensiva, di contrapporsi come ad un inconscio scomo-do. Un inconscio, cioè, che gli ricorda, implacabile, la responsabilità soggettiva, la possibilità della scelta diversa, nel segno della “disobbe-dienza”, che in ogni momento avrebbe potuto percorrere. Un incon-scio che gli ricorda non già l’assenza di coraggio, ma la sua volontaria adesione al patto di sangue nazista contro i propri fratelli, contro la vita.
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