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L’affaire Dreyfus: Il processo

Tra il 1894 e il 1906 l’Affaire Dreyfus divise profondamente la Francia della Terza Repubblica, toccando nel vivo nodi di matrice non solo giu-diziaria, ma anche militare, sociale, politica e religiosa. La sua eco si diffuse a livello internazionale al punto da rappresentare, senza dubbio, il primo e più grande processo penale mediatico di fine ‘800.

Straordinarie furono le sue conseguenze dirette ed indirette: la divisio-ne dell’opinione pubblica internazionale tra Dreyfusards e Antidreyfu-sards, la scesa in campo socio-politico dell’intellettuale engagé, la nasci-ta della scienza forense.

A tutt’oggi, l’Affaire non rappresenta solo un caso di errore giudiziario. Esso va ben oltre il manifestarsi della violenza dell’uomo sull’uomo, delle istituzioni sulla società, assurgendo a paradigma di ogni persecuzione. Nel caso Dreyfus assistiamo, infatti, alla messa in movimento di un congegno perverso e perfetto: l’apparato persecutorio viene reso effi-cace perché dissimulato attraverso la rassicurante forma del diritto e della ragion di stato.

Il 15 ottobre 1894 Alfred Dreyfus, trentacinquenne capitano del 14° Reg-gimento di artiglieria, addetto allo Stato Maggiore generale del Ministe-ro della Guerra, francese di origine alsaziana, di confessione ebraica, co-niugato e con due figli, venne arrestato in gran segreto perché indiziato di spionaggio in favore della Germania e, dunque, di alto tradimento. Corpo del reato è il famigerato Bordeareau, un papier pélure anonimo e non datato, strappato in sei parti, contenente rivelazioni di segreti militari francesi, trafugato dal cestino dell’attaché militare Maximilian von Schwartzkoppen dell’Ambasciata tedesca a Parigi, dalla domestica Madame Bastian e consegnato al maggiore Hubert Joseph Henry, ad-detto alla vice-direzione del bureau di controspionaggio “Section stati-stiques” del Ministero della Guerra francese.

Henry aveva riferito del ritrovamento al suo superiore, il colonnello Ge-orges Picquart, ed entrambi convennero che solo un ufficiale dello Stato Maggiore che avesse fatto recentemente parte dell’arma di Artiglieria, avrebbe potuto essere a conoscenza dei dati riportati nel documento. Una rapida indagine su questa ipotesi embrionale portò a restringere a cinque gli ufficiali in servizio che possedevano tali caratteristiche.

In gran fretta, i cinque indiziati furono sottoposti, sotto il controllo del tenente colonnello Armand du Paty de Clam, grafologo amatoriale, ad una prova consistente nello scrivere alcune frasi del Bordereau che sarebbero poi state confrontate con quelle ive contenute. Sui testi re-datti dagli indiziati furono chiamati ad esprimersi alcuni altri tecnici, nessuno dei quali, ad eccezione di uno, esperto della materia (Gustave Belhomme, Pierre Vainard, Raymond Conard, Pierre Gobert – l’unico perito calligrafo della Banca di Francia – e Alphonse Bertillon, commis-sario di polizia ed inventore dell’antropometria giudiziaria). I sospetti vennero concentrati esclusivamente sul giovane Capitano ebreo, no-nostante due esperti sui cinque selezionati dai servizi segreti si fosse-ro pronunciati da subito contro l’attribuzione del Bordereau a Dreyfus: colpevole ideale, tuttavia, perché appartenente al reggimento di arti-glieria, perché di origine alsaziana, ma, soprattutto, perché ebreo: “per-ché è sempre l’ebreo che tradisce la patria” (La Libre Parole).

Dreyfus, che da subito si protestò innocente rifiutando il classico in-vito al traditore perché si facesse giustizia da solo suicidandosi, venne tradotto alla prigione militare di Cherche-Midi, registrato col solo co-gnome, senza alcun’altra indicazione che potesse spiegare chi fosse e di cosa fosse accusato. Inoltre, su ordine del maggiore Armand du Paty de Clam, incaricato dell’inchiesta “préparatoire”, il detenuto avrebbe dovuto essere chiamato esclusivamente con il numero 167. Seguirono incessanti interrogatori diurni e notturni in assenza del difensore, alla ricerca spasmodica di una confessione che potesse colmare il vuoto in-vestigativo ma che non arrivò mai.

La segretezza dell’arresto venne rotta da l’Eclaire il 1° novembre 1894 con la pubblicazione della notizia, infarcita da i “si dice” e i “forse”, dell’incarcerazione di un ufficiale di Stato Maggiore per delitto di lesa patria. Ed è il quotidiano “Patria” a diffondere, qualche giorno dopo, il nome dell’“ufficiale abbastanza indegno per vendere i segreti del nostro paese, abbastanza miserabile per commettere questo delitto di lesa patria”, specificandone l’appartenenza alla famiglia odiata degli ebrei; ciò che fece scatenare tre dei più potenti giornali antisemiti francesi, nelle fir-me di Drumont, Richefort e Cassagnac.

In questo clima di odio e di completo vuoto probatorio, il 19 dicembre 1894, si celebrò la prima delle quattro udienze avanti al Consiglio di Guerra composto da sette ufficiali e presieduto dal Colonnello Maurel. Il Comandante Brisset sosteneva l’accusa e l’avvocato Edgar Demange la difesa dell’imputato. L’aula era gremita di pubblico e giornalisti. Il Commissario del Governo chiese tuttavia al Consiglio di Guerra di pro-cedere a porte chiuse: “In virtù dell’art. 113 del Codice di giustizia militare, il quale dispone che se la pubblicità appare pericolosa per l’ordine pubblico o pei costumi, il Consiglio deve ordinare che i dibattimenti proseguano a porte chiuse, io ho il dovere di requirire la procedura segreta, essendo la pubblicità del processo di tale natura da minacciare l’ordine. Voi conoscete i documenti che sono nel processo. Io non ho bisogno d’insistere, e so che mi basterà fare appello al vostro patriottismo”. 

Nonostante l’opposizione dell’avvocato difensore, il Consiglio di Guerra decise per la segretez-za dell’istruttoria, ordinando lo sgombro dell’aula nonché accurate precauzioni affinché nulla di quanto si sarebbe detto nel corso del dibattimento potesse trapelare all’esterno. Da quel momento in poi, una nebbia fittissima avvolse il calvario giudiziario di Alfred Dreyfus, costellato di elementi accusatori documentali e dichiarativi falsi, cor-roborati dalla tesi della c.d. autofalsificazione elaborata da Alphonse Bertillon, noto antisemita e privo di competenze grafologiche, secon-do cui la differenza tra la scrittura del Bordereau e quella dell’accusato era dovuta al fatto che Dreyfus avesse dolosamente modificato la pro-pria grafia per sviare i sospetti da sé. Oltretutto, il 22 dicembre 1894, poco prima della deliberazione della sentenza, il Consiglio di Guerra acquisì un dossier segreto trasmesso dal ministero della Guerra e non osteso alla difesa perché asseritamente coperto dal segreto di Stato.

Quello stesso giorno, Dreyfus venne riconosciuto colpevole e condanna-to alla deportazione a vita all’Isola del Diavolo, in Guyana, ed alla degra-dazione militare che avverrà pubblicamente il 5 gennaio 1895, alle nove del mattino, nella corte della Scuola Militare di Parigi. Al cospetto di mi-gliaia di militari e di civili che invocavano addirittura il ripristino della pena di morte, Dreyfus non cessò di gridare la propria innocenza.

Nel corso del 1896, allorché il quotidiano L’Éclair rivelò al pubblico l’esi-stenza del dossier segreto trasmesso ai giudici pochi minuti prima della sentenza, e mentre la stampa non cessava di sfruttare l’Affaire come pro-paganda anti-semita, il luogotenente colonnello George Picquart venne causalmente in possesso del “petit bleu”, un foglietto che rivelava una corrispondenza tra Schwartzkoppen e Esterhazy, un ufficiale francese di origine ungherese, la cui calligrafia assomigliava incredibilmente a quel-la del Bordereau. I generali dello Stato Maggiore de Boisdeffre e Gonse rifiutarono tuttavia di riaprire l’Affaire. Nel novembre 1896, Picquart fu dismesso dalle sue funzioni e rimpiazzato dal colonnello Henry, per poi essere trasferito, nel gennaio 1897, nel sud della Tunisia. Il fratello del ca-pitano Dreyfus, Mathieu Dreyfus, accusò Esterhazy di essere l’autore del Bordereau e nel novembre 1897 venne aperto un procedimento penale contro quest’ultimo che, tuttavia, si concluse con l’assoluzione.

Proprio questo verdetto assolutorio spinse Émile Zola a mettere in gioco il proprio nome, il proprio onore ed il suo statuto di acclamato ro-manziere, pubblicando, il 13 gennaio 1898, sul quotidiano L’Aurore il suo “J’accuse”, una lettera al Presidente della Repubblica, Félix Faure, nella quale l’intellettuale engagé denuncia pubblicamente non solo e non tanto l’errore giudiziario ma, soprattutto, la macchinazione ordita dalle massime cariche dello Stato per dissimularlo, indicando, uno ad uno, gli autori e gli attori di una tale ingiustizia: du Paty de Clam, i generali Mercier, Billot, Boisdeffre, Gonse, Pellieux, i periti calligrafi, il Ministro della Guerra ed i componenti del Consiglio di Guerra.

Incriminato per il reato di diffamazione e vilipendio delle forze armate, il processo contro Zola, difeso dall’avvocato Fernand Labori, ebbe inizio il 7 febbraio 1898 avanti la Corte d’assise di Seine. Il clima del processo si rivelò dannosissimo per la sorte giudiziaria dello scrittore. Si levavano dal pubblico in aula terribili urla contro l’imputato: “A morte Zola! Abbasso gli ebrei!”. La pubblica accusa non citerà neppure alcun testimone nono-stante Labori avesse notificato al pubblico ministero la richiesta di escus-sione di oltre venti soggetti. Il 23 febbraio dello stesso anno, Zola venne condannato al massimo della pena: un anno di reclusione, 3.000 franchi di multa e la privazione dell’onorificenza della Legione d’Onore. La difesa di Zola ricorse in cassazione, ottenendo un nuovo processo. Tuttavia, so-praggiunse una nuova condanna e Zola decise di lasciare la Francia.

Ma proprio l’ingiustizia dell’Affaire Zola divenne specchio e cassa di ri-sonanza di quella dell’Affaire Dreyfus, creando l’occasione di divulgare pubblicamente le prime prove della sua innocenza e segnando la di-visione internazionale nel mondo sociale, intellettuale e politico tra i dreyfusards che chiedevano a gran voce un nuovo processo per il giova-ne capitano e gli antidreyfusards che ne erano contrari per preservare la potenza dell’armée francese, il suo onore ed i suoi interessi.

Proprio in concomitanza con la presentazione delle istanze di revisio-ne del processo di primo grado, dei nuovi documenti vennero prodotti alla Camera dei Deputati da parte di Cavignac, nuovo ministero della guerra, che avrebbero reso, a suo dire, la colpevolezza di Dreyfus ir-réfutable, inconfutabile. Quei documenti, tuttavia, non vennero ostesi né a Dreyfus, né a sua moglie, né al suo avvocato. Una nuova inchiesta dimostrerà ben presto che si trattava di veri e propri falsi, confeziona-ti ad arte dal luogotenente colonnello Henry. Nell’agosto 1898, colpo di teatro, quest’ultimo confessa la falsificazione non solo delle nuove prove documentali ma anche di una parte di quelle presenti nel dossier segreto acquisito dal primo Consiglio di Guerra. Arrestato, Henry ver-rà rinvenuto morto nella sua cella con la gola recisa il 16 agosto 1898. Suicidio, secondo il rapporto ufficiale.

Il 7 agosto 1899 si celebrò il processo di revisione dell’Affaire. Il 9 set-tembre 1899 Dreyfus venne nuovamente giudicato colpevole con la concessione delle circostanze attenuanti e la riduzione della pena a die-ci anni di reclusione. Il Presidente della Repubblica, Émile Loubet, gli concederà la grazia il 21 settembre dello stesso anno; tuttavia, occorrerà attendere sino al 12 luglio 1906 perché un nuovo processo di revisio-ne dinanzi alla Corte di cassazione di Rennes, riconosca l’innocenza di Dreyfus e lo reintegri nell’esercito con il grado di comandante, insi-gnendolo della Legione d’Onore.

La Corte di cassazione, pur essendo ormai emerse le prove che acclara-vano l’innocenza del condannato, ritenne necessario interpellare alcu-ni esperti della comunità scientifica per chiarire ulteriormente la que-stione grafologica e, soprattutto, la tenuta tecnico-scientifica della tesi dell’auto-falsificazione propugnata da Bertillon. Gli scienziati chiamati ad esprimersi sulle prime perizie furono i matematici Paul Émil Appell, Jean Gaston Darboux e Jules Henri Poincaré. Quest’ultimo si occupò di redigere gran parte del rapporto richiesto dalla Corte. La presenza di Poincaré fu particolarmente significativa, non solo per la sua chiara fama internazionale, ma anche perché, a differenza degli altri due peri-ti, non si era mai pubblicamente schierato. 

L’elaborato di quegli esperti, che mise chiaramente a nudo le molteplici contraddizioni logiche, scientifiche ed i grossolani errori della perizia Bertillon, rappresenta ancora ad oggi un esempio straordinario di applicazione del metodo scientifico e della razionalità nel processo penale, soprattutto con ri-guardo al tema della prova logica.

Le vicissitudini dell’Affaire Dreyfus, tutti i suoi addentellati di natura penal-processuale, politica e sociale, sono talmente corpose ed intricate da non poter qui essere ripercorse integralmente.

É stato tuttavia indispensabile condensarne le tappe nevralgiche per far comprendere al Lettore le scelte drammaturgiche salienti della rappre-sentazione teatrale.
Prima fra tutte, quella di ridare voce al processo di primo grado, con-trassegnato, all’epoca, dalla assoluta segretezza. L’attentato alla pubbli-cità del dibattimento è stato, infatti, l’ingranaggio principe per l’effica-ce azione del meccanismo persecutorio contro Dreyfus. Proprio nello sforzo di un dinamismo temporale della pièce, con i continui richiami al passato e al futuro dell’intero calvario giudiziario, attraverso la citazio-ne rigorosa del vissuto di tutti i protagonisti – sulla base sia delle fonti processuali, sia di quelle a carattere storico e autobiografico – risiede il tentativo di ridare parola all’accusato e, nel contempo, al giusto proces-so di cui aveva diritto.

Ed è così che si innestano sulla trasposizione teatrale due licenze drammaturgiche.

Anzitutto, l’introduzione nell’istruttoria di primo grado di una prova scien-tifica – quella grafologica – in chiave peritale e, dunque, super partes e che mai venne disposta dal Consiglio di Guerra, il quale si appiattì aprioristi-camente sull’elaborato grossolano di Bertillon, privo delle specifiche com-petenze, e, oltretutto, innervata di errori logici e probabilistici straordinari. La seconda invenzione drammaturgica attiene alla ideale riaffermazio-ne del principio processuale del contradditorio e della correlata piena discovery all’imputato degli elementi accusatori; canoni, questi, che vennero depredati dal Consiglio di guerra attraverso l’acquisizione al fascicolo del dibattimento del famigerato dossier segreto ed al suo uti-lizzo come prova della colpevolezza dell’accusato.

La pièce è, inoltre, figlia di una sorta di beanza; dell’urgenza, cioè, di ricucire idealmente lo strappo del diniego di giustizia pervicacemente dissimulato dagli apparati statali in nome di una ragione di stato folle, irrazionale e prevaricatrice.

In questa prospettiva, voce femminile si è voluta dare al personaggio di Émile Zola che punteggia lo sviluppo narrativo con il segno della con-traddizione. Del dubbio.

Questa figura teatrale interviene nella rappresentazione della dinamica storico-processuale dell’Affaire con i suoi richiami alla Ragione e alla Veri-tà. Ad una verità, però, intesa non solo come fonte originaria della ragione, come logos che precede ogni logica, ma anche come verità che pretende una testimonianza personale di carattere metalogico. Una verità che pre-tende, per affermarsi pienamente, non solo di essere gridata ma anche di essere vissuta come coscienza critica del potere e del suo esercizio.

Chiara Padovani, Milano luglio 2021
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